Muri. Un’altra storia fatta di uomini 
di Claude Quetél, Bollati Boringhieri 2019

I muri hanno accompagnato la storia dell’uomo fin dai primi villaggi e, pur cambiando fattezze architettoniche e motivi di costruzione, il loro scopo è sempre lo stesso: impedire, di solito da parte di chi detiene il potere di una grande disponibilità di uomini e denaro, a qualcuno di entrare o… di uscire. Fanno eccezione tutta un'altra serie di muri usati come punti di raccolta per pregare, commemorare eventi importanti o fucilare il nemico. Tutti comunque, è questa conclusione cui arriva l’autore, hanno un radioso avvenire.  
Per ognuno dei muri presi in considerazione l’autore ne ripercorre la storia, le ragioni per cui è stato costruito, l’evoluzione architettonica, la pregnanza allo scopo. Un’unica buona notizia, raramente un muro ha raggiunto il suo scopo in toto e prima o poi è stato abbattuto diventando luogo di memoria e/o di turismo. Il muro più antico è anche l’eccezione alla precedente osservazione. La Grande Muraglia è sopravvissuta, comunque inutile, fino ad oggi.  Fa parte di quelli che l’autore chiama muri di frontiera, muri cioè che delimitano un territorio, un confine che però non va inteso come confine “nettamente definito tra due stati” (concetto che si concretizza nel XVIII secolo con i progressi della cartografia) ma “come confine tra due mondi […] tra i civilizzati e i barbari […] la Grande muraglia vuole essere unificatrice”, vuole racchiudere un mondo che non ha nulla da spartire con l’esterno. Per inciso pur nella sua maestosità non impedisce ai Mongoli di invadere la Cina. Dello stesso tenore è il limes romano, una demarcazione tra civiltà e barbarie.  Al contrario della Grande muraglia, anche se le mappe storiche “danno l’impressione di un impero dalle frontiere rigorosamente limitate” il limes è una frontiera in continuo avanzamento che segue le vittorie di Roma, quando si stabilizza è già “l’ammissione di una prima sconfitta”. Il confine, ragionando i romani “in termini di popoli più che di territori”, non esclude chi è dall’altra parte. I barbari poco a poco si adattano al modo di vita di Roma fino a che il limes renano-danubiano vedrà Germani arruolati nelle legioni che vivono con le famiglie dalla “parte sbagliata”. Il confine non cadrà di colpo ma a poco a poco con una “lenta infiltrazione dalla periferia verso il centro” man mano che quest’ultimo avrà perso la sua capacità di controllo. Altri e numerosi furono i muri di frontiera in Mesopotamia, in Galles, a Manhattan dove la celebre Wall street potrebbe ricordare la fortificazione che divideva i coloni olandesi dai territori indiani.
Altri tipi di muri presi in considerazione sono quelli che Quetel chiama muri di proscrizione. Non dividono stati ma delimitano zone vietate nelle quali non si può entrare o uscire. I più noti sono quelli dei ghetti ebraici. Costruiti sui confini dei quartieri ebraici medievali i ghetti recintati nacquero nel Rinascimento e presero il nome dal quartiere di Venezia in cui abitavano gli ebrei. La differenza col quartiere ebraico medioevale è la “segregazione forzata”, l’obbligo di abitarvi. Non impedivano il passaggio tout court avevano scopo di controllo, anche economico per impedire che “gilde di artigiani ebrei [fossero] in grado di contrastare le corporazioni cristiane”. Anche se le pessime condizioni di vita provocavano moltissimi morti non era loro estraneo un carattere di protezione nei confronti di una minoranza spesso alla mercé di moti popolari. In terra islamica anche le minoranze cristiane dei mercanti preferivano vivere nei propri quartieri, spesso fortificati, per evitare assalti. Distrutti dalla fine del XVIII in poi rinascono col nazismo ma qui il muro di cinta perde ogni porosità e i ghetti diventano “cimiteri dei vivi”. Il più economico e duraturo tra i muri di proscrizione è il filo spinato. Capace di creare una barriera laddove non c’è niente per costruirla, nella colonizzazione del Nord-America ha “svolto un ruolo altrettanto, se non più importante della ferrovia”. Delimita la proprietà agricola e a farne le spese sono non solo gli indiani ma anche gli allevatori che si vedono precludere il libero accesso ai pascoli e all’acqua. Il filo spinato ha ribadito la vittoria dei sedentari nei confronti dei nomadi. Per ultimo tra quelli descritti, in tempo di pandemia, citiamo il muro che fu costruito in Provenza nel 1720 per impedire agli abitanti della regione, colpita dalla peste, di portare il contagio nel resto del Regno di Francia.
La maggior parte dei muri del secolo scorso sono nati su frontiere conflittuali. Costruiti per impedire una eventuale invasione del nemico alla fine sono stati più utili per impedire l’espatrio della popolazione. Il più longevo è la linea di demarcazione tra le due Coree. È ancora in piedi per due ragioni la prima è che la sua ragion d’essere è ancora valida la seconda che non è stato costruito da una delle parti ma è stato imposto dalla comunità internazionale. L’altro muro emblema del 900 è l’unico muro che si è potuto fregiare della maiuscola, il Muro di Berlino. Figlio della guerra fredda è durato il tempo in cui la contrapposizione politica tra i due blocchi ha avuto ragione di essere. Alla fine la sua funzione principale è stata quella di essere simbolo della divisione ideologica tra due parti del mondo. Venuto meno il pericolo dell’invasione è diventato recinzione per gli abitanti del blocco sovietico che non potevano superarlo (se non a rischio della vita).  Ala sua caduta proclami roboanti salutavano la fine del mondo bipolare e con lui la caduta di tutti i muri. Mai previsione fu più errata, a quelli già esistenti (Corea, Cipro, Sahara spagnolo, Kashmir) ancora in piedi se ne sono aggiunti altri simili (India, Medio Oriente, Caucaso) e di altra natura di cui tra poco parleremo. La naturale evoluzione dei muri di frontiera è quella di diventare, ci sia stata o no un’urgenza conflittuale, una linea di divisione tra ricchi e poveri di solito mascherata da deterrente all’immigrazione clandestina o terroristica (spesso accomunate).
Tra i muri anti immigrazione il più famoso è quello tra USA e Messico. Costruito per dissuadere e controllare i flussi migratori provenienti dal paese centroamericano, ha ottenuto l’effetto di far aumentare i pedaggi da pagare ai passatori o spingere alla morte quelli che tentano di attraversare il deserto dove i controlli per ovvie ragioni sono più blandi. Il “muro di Bush” (oggi in via di miglioramento da parte di Trump) ha ricevuto critiche da tutto il mondo anche dall’UE proprio mentre veniva finanziata la costruzione di una barriera tra Ceuta e Melilla. In ultima analisi si può ragionevolmente dire che la necessità dell’ultima generazione di muri è proprio nella divisione tra ricchi e poveri (la barriera di Hong Kong separa cinesi con alti redditi da cinesi in cerca di lavoro). Il muro israeliano, nato per combattere il terrorismo, si è convertito in un formidabile strumento di controllo espandendosi fino ad inglobare territori che non gli pertenevano isolando di fatto intere comunità palestinesi. Le proteste internazionali non valgono mai in questo genere di azioni, il comune denominatore di questi muri è che la costruzione è fatta dalla parte del (nettamente) più forte sul proprio territorio il che li ammanta di un carattere amministrativo, non politico (esattamente il modus operandi dell’apartheid).
I “cugini” dell’ultima serie di muri presi in considerazione dall’autore sono i muri di segregazione, quei muri cioè che dividono abitanti di una stessa nazione, di una città o addirittura di un quartiere. A Belfast dividono i cattolici e i protestanti, a Padova gli immigrati dai residenti, un po’ in tutto il mondo i quartieri dei ricchi, vietati ai non residenti, da quelli poveri. Questo genere di isolati spesso si “appropriano più o meno legalmente degli spazi pubblici” avvalendosi anche di polizie private. Intervistati gli abitanti di questi quartieri giustificano la loro costruzione nel fatto di essere al riparo dalla violenza, di poter riscoprire la vita comunitaria, di poter permettere ai bambini di giocare per strada. Ancora una volta non c’è niente di politico.
In definitiva nella carrellata di opinioni riguardo ai muri, a conclusione del libro, Quetel tralasciando la retorica del ponti non muri trova le ragioni della loro proliferazione, nel crescente divario tra ricchi e poveri, tra nord e sud. Al di fuori delle situazioni in cui vengono costruiti “chi esprime giudizi si trova sempre a una buona distanza da questi muri e dai problemi che li hanno provocati” .

Franco Botta

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